Le bande della Pardesca
Quella piccola frazione nel comune di Bianco… non ebbi mai modo di sapere se quanto si verificava là accadeva anche negli altri paesi. Suppongo di sì. O forse no. In realtà non ho mai voluto saperlo. Quello che però mi piacerebbe fare (con un che di giudizio e sentimento) è qualcosa che offra un motivo di riflessione ai ragazzi di oggi. Si tratta, in verità, di un viaggio a ritroso nel tempo, tra le stradine di quei paesi che lasciano nel cuore e nell’animo di chi ci è vissuto un ricordo tutt’oggi vivido.
Il tutto, naturalmente, in un’epoca che viaggiava a cavallo tra la fine del malessere e il principio del benessere (l’inizio e la fine degli anni ’70, insomma). Gli anni in cui (da noi) si diventava uomini senza mai essere stati bambini. Perché bambino lo eri già e a diventare uomo ci mettevi un attimo. Era la legge del bisogno che lo esigeva!
Per un ragazzo, trasformarsi in uomo maturo non era poi così difficile: bastava uscire da quella piccola pausa ricreativa che offriva la giornata per andarsene a pascolare il gregge, o a raccogliere olive, ghiande per i maiali, erba per i conigli, a mungere la capra, la mucca e Dio solo sa cos’altro. Tutte cose che catapultavano l’individuo dall’oggi al domani nella realtà parallela del mondo delle responsabilità.
E così, mentre nel resto d’Italia i ragazzi della nostra età vestivano i pantaloni a zampa di elefante e canticchiavano “Ma il cielo è sempre più blu”, in Calabria camminavamo con i piedi dentro un paio di scarpe con buchi grandi quanto il crateri di un vulcano; indossavamo pantaloni rammendati, le casacche dello zio, del fratello più grande e via dicendo. Si correva controcorrente, insomma. Dietro un tempo che falciava gli anni volando a ali spiegate tra le cocenti estati e i rigidi inverni del nostro incantevole Mezzogiorno.
E comunque si era vivi! Nel cuore come nell’anima. Intenti a non sprecare un solo secondo di quel po’ che ci concedeva la vita. Non certo davanti a uno schermo lanciare improperi contro il prossimo.
Non era così, ai nostri tempi. Non per i ragazzi della Calabria. E ancora meno per i ragazzi di Pardesca che, tra le altre cose, si prodigarono a creare le bande: la banda di sotto e la banda di sopra.
Tra le trovate destinate al gioco, i ragazzi di Pardesca avevano diviso il paese in due: la zona di sopra per i ragazzi delle baracche e quella di sotto per i ragazzi della piazza. Tuttavia successe che, una volta stabiliti i confini, ci rendemmo conto che non bastava solo questo, ma ci dovevano essere dei ragazzi che controllassero gli altri. Presto capimmo che questi ragazzi dovevano, a loro volta, far parte di un gruppo. Per cui non ci restò che creare un mondo collettivo, fatto di regole e di appartenenze.
Si trattava di un mondo affine a quello dei Ragazzi della via Pàl di Budapest, con la differenza che noi facevamo un po’ più sul serio.
Oltre a combattere guerricciole di quartiere, compivamo vere e proprie scorribande a danno dei nostri avversari. E così, a incassare, un giorno erano quelli della banda di sotto, a cui veniva distrutta la casa sull’albero, il giorno seguente quelli della banda di sopra, a cui veniva saccheggiato e demolito il rifugio. Non c’era scampo, insomma. Non c’erano privilegi. Non c’era tregua. Solo botte e risposte.
Le bande erano costituite da un minimo di quindici o sedici ragazzi, ognuna delle quali aveva, prima di tutto, un quartiere alternativo, e cioè un punto, a seconda della zona di cui si faceva parte, in cui incontrarsi per decidere le faccende riguardanti la banda. C’era poi un capo, un vice, un messo, tre o quattro vedette, due o tre armaioli, uno stratega; tutti personaggi che, all’occorrenza, si trasformavano in combattenti.
Teatro degli scontri erano la Croce, i Santini, il Cannone di Cocca, la Pardesca vecchia, ovvero quelle aree attigue al paese in cui venivano organizzati un massimo di due combattimenti al mese. Combattimenti che i portavoce delle due fazioni combinavano seguendo un rigido protocollo, come se ci fossimo giurati inimicizia eterna.
Con i cerchi delle botti eravamo riusciti a creare delle taglienti spade, con i ferri di ombrelli e ombrelloni frecce e archi, con le corpose foglie dell’aloe elmi e armature. E poi fionde, mazze, lance.
E cosi, tra un urlo d’attacco, un colpo di spada, uno scontro e una tregua, scorreva la nostra infanzia.
Come in tutte le battaglie anche in queste, benché non fossero vere, c’erano vinti e vincitori. Naturalmente non si vincevano trofei, non si conquistavano nuove aree e non si prendeva possesso di nulla. Si lottava solo per la gloria. E bastava questo. Ciò permetteva di raggiungere un certo consenso, specie tra i più grandi, reduci già da qualche anno delle medesime iniziative. Tutto aveva un limite, anche se qualche volta ci scappava il ferito; si trattava però di taglietti risolvibili con qualche punto da parte del medico condotto. Anche questo rientrava nella norma del gioco.
Tutto sommato, il nostro criterio non differiva granché da quello che presentava la vita là fuori.
Era un modo come un altro per vivere quell’esistenza epica che ogni ragazzo della nostra età sognava. E fu precisamente per far fronte a questo tipo di esigenze – se così vogliamo chiamarle – che creammo un mondo su misura per noi. Un mondo di piccoli eroi, di piccoli generali, di piccoli soldati, di piccole pecche e di grandi debolezze, Uno squarcio di mondo tanto angusto quanto smisurato, che per i ragazzi di Pardesca (per un lungo periodo di tempo) riprodusse su campo le scene della vita, quella realtà per cui l’essere umano, ora volontariamente, ora per costrizione, continua a lottare per tutta la sua esistenza.
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