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Attualità

Un’utopia chiamata pace

Pensieri, parole, opere… e opinioni


Edil Merici

Sfruttando il periodo di prova gratuito di una nota piattaforma musicale, recentemente ho avuto il piacere di alimentare nuovamente la mia passione per la musica. Nelle ultime settimane ho dunque scoperto nuovi artisti dei miei generi musicali preferiti, ascoltato album sconosciuti di vecchi amori melodici o di riscoprire antiche passioni ritmiche.
Gira che ti rigira, la maggior parte del tempo trascorso con le cuffie alle orecchie ho finito per passarlo bevendomi nuovamente le note de Il Teatro degli Orrori, gruppo di alternative rock veneto che tra il 2007 e il 2015 ha prodotto 4 album studio di profonda denuncia sociale, che hanno costituito tenacemente la colonna sonora dei miei spostamenti da e per l’Università. Il gruppo capitanato da Pierpaolo Capovilla si è sempre contraddistinto per le sonorità graffianti e i contro toni spesso in grado di spaesare l’ascoltatore più avvezzo alle tonalità tradizionali, ma il suo vero marchio di fabbrica è sempre stata una cura maniacale nell’elaborazione dei testi, frutto di una ricercatezza che oserei definire pasoliniana e totalmente incardinata sulla volontà di schiaffeggiare l’ascoltatore con le ingiustizie del mondo. Alla discografia sostanzialmente breve del gruppo si contrappone infatti una forma di immortalità delle parole cantate da Capovilla, che con i suoi toni graffianti è in grado di dimostrarci come, nonostante spesso cambino i nomi dei protagonisti o dei luoghi a cui fare riferimento, quanto narrato in musica resta sempre valido, in un eterno ritorno dell’uguale che ci dimostra quanto la società occidentale non sia in grado di rinnovarsi.
È con questa filosofia che nascono brani meravigliosi come Il turbamento della gelosia, La canzone di Tom, A sangue freddo, È colpa mia, Gli Stati Uniti d’Africa, Cleveland-Baghdad, Martino o Il lungo sonno, ma anche la canzone a cui più di altre mi è capitato di pensare in questi giorni di profondi turbamenti sociali e politici.
Si tratta di Una donna, contenuta nell’ultimo album studio del gruppo, il cui testo descrive una foto (quella di copertina del presente articolo) che ritrae una delle donne di Kobane, nell’atto di rivolgere uno sguardo ricco di significati a un fotografo presente nelle zone di guerra.
Nella sua storia recente Kobane, posta sul confine tra Siria e Turchia, ha vissuto due gravi momenti di crisi: uno durante la guerra civile del 2012 e uno nel 2014 (periodo cui fa riferimento la fotografia in questione), quando lo Stato Islamico ha aggiunto benzina sul fuoco ponendo sotto assedio il centro abitato. Nel brano, Capovilla si mette nei panni del fotografo che ha realizzato questo scatto straordinario, cercando di far capire allo stupido che osserva il dito e non la luna il perché quella che ha davanti agli occhi non è una fotografia come le altre.

Dopo aver evidenziato l’amarezza della condizione della giovane ed esternato una naturale compassione umana nei suoi confronti, il brano evidenzia il calcolato disinteresse che il mondo occidentale ha riservato nei confronti della situazione Siriana, aspetto ancora più amaro se consideriamo che, almeno in Italia, in quel periodo non si sapeva assolutamente nulla di quanto stava accadendo a oriente e bisognerà anzi attendere solo la prima metà del 2015 e il reportage a fumetti Kobane Calling di Zerocalcare anche solo per sentire parlare della città al confine con la Turchia.
Grida Capovilla nella seconda metà della canzone:

Proprio il mondo che gira ci ha dimostrato, a 10 anni esatti dallo scatto di quella foto e nella settimana del Giorno della Memoria, quanto votati siamo all’autodistruzione e quanto la possibilità di costruire un mondo sui pilastri della pace e del dialogo sia un’utopia sempre più irraggiungibile.
La nostra indifferenza agli orrori che hanno vissuto le popolazioni mediorientali nell’ultimo ventennio è proseguita senza intoppi fino allo scoppio della Guerra in Ucraina, prossima ormai a entrare nel suo 3º anno, alla quale va il solo merito di averci fatto comprendere che nessuno è al sicuro e che, soprattutto, gli interessi economici di qualunque capo di stato del mondo avranno sempre diritto di prelazione su qualunque volontà di confronto.
E mentre mi rimane l’incertezza di che fine abbia fatto, oggi, quella donna di cui Il Teatro degli Orrori ci ha parlato, mi rimane la certezza che l’Olocausto non ci abbia insegnato proprio nulla…

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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