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Costume e SocietàLetteratura

La messa in discussione del primato della Repubblica

Le riflessioni del centro studi

Edil Merici

Di Salvatore Gullì – Avvocato del Foro di Catanzaro

L’interrogativo se, più in generale, l’Europa avesse potuto permettersi una moneta unica esula invero dalle nostre considerazioni. Studi rigorosi sul punto hanno dimostrato che l’Europa non avrebbe potuto coltivare un progetto di integrazione valutaria, sussistendo impedimenti linguistici, educativi, culturali, previdenziali e persistendo, come accennato, la prevalenza di una ideologia mercantilista, come accennato, prevaricatrice ed autodistruttiva.
Nicholas Kaldor, già nel 1971, aveva ammonito che sia “un errore pericoloso credere che l’unione monetaria ed economica possa precedere un’unione politica o che possa agire come un lievito per lo sviluppo di una unione politica della quale non sarà comunque possibile fare a meno nel lungo periodo”. In definitiva, non può negarsi che la scelta della moneta unica sia stata una evenienza connessa, e susseguente, rispetto a una politica di ampia liberalizzazione finanziaria. C’è da dubitare che il Parlamento Italiano abbia sufficientemente discusso se detta scelta avesse potuto ostacolare il libero funzionamento di un sistema democratico repubblicano. C’era piena consapevolezza che tale decisione avrebbe causato un ridimensionamento delle prerogative repubblicane in materia di politica economica? Effettuata una scelta così dirompente, giova ormai ad alcunché prendere atto che le pubbliche istituzioni, a suo tempo, non si siano sufficientemente interrogate sui margini di effettivo esercizio della sovranità popolare in un contesto caratterizzato da movimentazione incontrollata di capitali internazionali nel territorio Italiano? La classe dirigente nazionale era consapevole che una liberalizzazione del movimento dei capitali e un tasso di cambio fisso (all’interno di aree economicamente disomogenee) avrebbero prodotto inevitabilmente tassi di interesse diversificati, e più alti, nelle zone economicamente più fragili? Essa era inoltre consapevole che alcune zone dell’Unione Europea sarebbero divenute mero mercato di sbocco per i beni prodotti in territori distanti dai luoghi di consumo? Era, ancora, consapevole che, nonostante l’indebolimento delle prerogative repubblicane, sarebbe stato mantenuto l’interesse (beffardo) ad esigere che la stessa Repubblica avrebbe dovuto, pur sempre, effettuare interventi di salvataggio di banche private, anche quando le medesime banche avrebbero dimostrato avventatezza nella concessione di prestiti a privati? Senza che i cittadini ne avessero contezza, il rapporto fra Repubblica e mondo finanziario è stato insomma rivoluzionato.
Di sicuro, in origine, le norme costituzionali erano state concepite avendo in mente un assetto normativo in cui una Banca centrale nazionale fosse tenuta a finanziare il fabbisogno del Tesoro, un assetto in cui le banche, i fondi pensione, il costo del denaro, i movimenti internazionali dei capitali, sostanzialmente, soggiacessero, tutti, al controllo statale; ed erano state concepite avendo in mente inoltre un assetto in cui operassero vincoli di portafoglio delle istituzioni finanziarie nazionali, tenuti ad acquistare una quota di titoli del debito pubblico, e in cui si prevedessero divieti di erogare crediti oltre una certa soglia e anche divieti per lo Stato di andare oltre una certa soglia di debiti. Quasi niente di tutto ciò è stato però mantenuto. Si è piuttosto verificata una graduale rimozione delle disposizioni statuali che controllano i mercati e si è arrivati al punto in cui, indebitandosi in euro, si è persino perso il controllo della valuta nella quale è denominato il debito. L’articolo 81 della Costituzione, introdotto con la legge costituzionale nº 1 del 2012, recita che “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. Si tratta di una disposizione che stride con i valori fondamentali della Repubblica, in quanto espressione di una visione dello Stato e dei poteri governativi che potrebbe favorire una pericolosa sottomissione della stessa Repubblica a decisioni monetarie non generate democraticamente. Già il primo comma dell’art. 117 della Costituzione, inserito con la legge costituzionale nº 3 del 2001, aveva dichiarato che la potestà legislativa sia esercitata dallo Stato e dalle Regioni anche nel rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Sul piano delle intenzioni, la volontà espressa con l’art. 81 è in linea con quella manifestata con l’art. 117.
Emerge da tempo, in effetti, una volontà di affermare una sorta di primato di dettami economici provenienti da fonti esterne alla democrazia repubblicana. Nessuna intenzione, buona o cattiva che sia, è, per fortuna, ancora in grado di superare lo sbarramento offerto dall’art. 139 della Costituzione: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Ed invero, il primato della Repubblica non può e non deve mai essere messo in discussione, al punto che, ad esempio, in assenza dell’art. 50 del Trattato dell’Unione Europea, disposizione che prevede che “ogni Stato membro può decidere… di recedere dall’Unione”, gli stessi Trattati Europei sarebbero da ritenere costituzionalmente illeciti.

Continua…

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 30/06/2023
Foto: skuola.net

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