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Costume e SocietàLetteratura

Di nuovo insieme

La tela del ragno


Edil Merici

Di Francesco Cesare Strangio

Per Serafino arrivò il giorno del processo, il pentito fu smentito e smascherato: si era fatto alfiere e oracolo di un grande inganno, privandolo per tre lunghi anni della sua libertà. Difronte alla clamorosa smentita di quanto aveva architettato il falso collaboratore di giustizia, alla corte non restò altro che assolvere Serafino con formula piena. Quell’esistenza sospesa, a quei tempi, costò alla collettività un risarcimento di 400.000.000 di ₤ a compenso dell’ingiusta detenzione. Se fosse stato un cittadino a limitare la libertà di Serafino, gli sarebbe stata comminata una pena equiparata all’ergastolo per l’abominio compiuto.
Come si sa, la violenza può essere perdonata solo quando viene esercitata e perpetrata dallo Stato: filosofia alquanto discutibile che lascerà interdetti gli uomini del futuro, sempre ammesso che ci sarà un futuro in cui gli uomini saranno in grado di pensare.
Questi fatti e tanti altri sono il risultato dei tragici paradossi della struttura organizzativa che l’homo sapiens è riuscito a creare.
Accerchiato dai dubbi, Aquilino si domandò: «In noi uomini in che cosa sta l’immagine e la somiglianza con Dio? Forse, l’unico aspetto che rende gli uomini simile agli dei è la follia…»
La somma di denaro percepita da Serafino, come compenso per l’ingiusta detenzione, fu sufficiente a remunerarlo per tutte le privazioni, le sofferenze e la mancanza dell’affetto dei suoi cari?
Dove sta la coscienza di quei cittadini che impropriamente si auto etichettano onesti? Forse per loro è sufficiente un bicchiere di vino in più per acquietare la loro pseudo coscienza.
L’esperienza della Slovacchia, a Aquilino, fruttò una somma di oltre 2.500.000.000 di ₤; ma due cose non gli furono più restituite: il suo giovane figlio e l’amico Bobbo, vittima della sua ingenuità e dell’altrui avidità.
La pace interiore era il ricordo di un lontano passato che cercava passeggiando in solitudine, lungo la spiaggia dell’isola in cui si era ritirato.
In apparenza il fiume impetuoso del tempo dà l’illusione di cancellare ogni cosa, ma è solo una falsa idea, poiché si lascia dietro fangosi ricordi.
Nel caso di Aquilino, quel fiume aveva scavato, nel suo essere, profonde vallate che solo gli occhi della sua mente potevano scrutare.
Serafino, con i soldi dell’ingiusta detenzione e con la vendita dell’azienda e quanto ricavato dall’attività, pochi anni dopo si trasferì sulla stessa isola dell’amico.
I due vecchi soci passavano intere mattinate in riva al mare con la loro canna da pesca. Aquilino osservava la lenza con particolare interesse e si sforzava a immaginare il tipo di pesce che, abboccando, avrebbe perso la vita. Poi, puntualmente, si poneva la solita domanda: perché quello e non un altro? Non azzeccava mai; prendeva coscienza dell’aspetto della vittima solo quando la tirava fuori. Mentre volgeva a termine l’esistenza di quella creatura, tanti altri giravano lì attorno osservando impotenti quanto accadeva al mal capitato.
Verso le nove rientravano e si mettevano comodamente sulla sdraio ad ammirare il mare che si perdeva divenendo un tutt’uno con l’orizzonte.
Il terrazzo gli permetteva, oltre a far gioire la vista, di beneficiare della lieve brezza che Aquilino chiamava “il respiro dell’oceano”. Quell’alito agitava le foglie del cocco, facendogli rivivere, nei ricordi, storie di altri tempi.
Aquilino era solito alzarsi di buon’ora e quella mattina ebbe il privilegio di udire, a distanza di molti anni, il canto del gallo che annunciava con forza, l’arrivo del nuovo giorno. La sua fu una vita vissuta intensamente, senza rimpianti né recriminazione alcuna; sapeva che il suo tempo stava venendo meno, pertanto volle vergare il suo mefitico pensiero sulla nuda e fredda roccia della futura e ultima dimora. A ragion veduta, l’unica cosa lasciata in sospeso era la data del trapasso, compito che toccava a chi restava.
Rivolgendosi ai posteri in visita alla sua tomba, era sua volontà lasciare scritto: “Qui giacciono le misere spoglie di uno dei tanti uomini che vissero nella consapevolezza di dover morire. Tu che oggi leggi il mio epitaffio, sappi che sei il frutto del sacrificio di un’infinità di uomini che hanno condotto la propria esistenza sotto l’inflessibile giogo della tirannia. Con l’ultimo respiro si è spenta la fioca luce che illuminava la mia coscienza, delegando al canto senza voce dell’oblio gli accaniti accusatori dell’inconscio. Tu non sarai più né schiavo né padrone, poiché sul tuo cosciente non splenderà la fioca luce di una misera candela, bensì il sole, tanto che sarai, come dio nell’Universo, dimenticato per sempre dalla morte. Non inorgoglirti della tua immortalità dimenticandoti della lunga scala che ti ha portato così in alto e fai sì che chi fu, viva per sempre nei tuoi ricordi.”
Erano le sette, quando sentì la voce di Serafino che lo invitava a uscire per andare a pescare. Il tempo di prendere gli arnesi e Aquilino uscì di casa sorridendo. Pochi metri e guadagnarono la solita postazione sulla battigia. Il tempo di preparare la canna da pesca, mettere l’esca all’amo ed ebbe inizio la pesca.
Nell’attesa che i pesci abboccassero, Serafino iniziò a raccontare l’inferno dei suoi tre lunghi anni di carcere…

Volendo seriamente ricercare la verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare, infatti, esse sono tutte connesse tra loro e dipendenti l’una dall’altra. Si deve piuttosto pensare soltanto ad aumentare il lume naturale della ragione, non per risolvere questa o quella difficoltà di scuola, ma perché in ogni circostanza della vita l’intelletto indichi alla volontà ciò che si debba scegliere; e ben presto ci si meraviglierà di aver fatto progressi di gran lunga maggiori di coloro che si interessano alle cose particolari e di aver ottenuto non soltanto le stesse cose da altri desiderate, ma anche più profonde di quanto essi stessi possano attendersi.
Cartesio – Discorso sul metodo

Fine

Foto: urlaubspiraten.de


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